L’anatocismo bancario è un fenomeno per il quale gli interessi sviluppati su un conto corrente bancario vengono attribuiti all’interno dello stesso conto, diventando così un ammontare dove, in seguito, matureranno altri interessi (c.d. capitalizzazione degli interessi).
Detto fenomeno, invalso nella pratica bancaria, trova una sua specifica disciplina all’interno del codice civile all’art. 1283 secondo cui, salvo usi contrari, il calcolo degli interessi sugli interessi già scaduti è legittimo solo dal giorno della domanda giudiziale o qualora sia oggetto di specifica pattuizione posteriore alla data della scadenza degli stessi, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi.
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A norma dell’art. 1283 c.c., pertanto, è fatto espresso divieto di computo degli interessi sugli interessi già scaduti, salvo “usi contrari”.
Secondo una risalente interpretazione dell’art.1283 c.c., volta a tutelare gli interessi degli istituti di credito, alla locuzione “usi contrari” doveva essere attribuito valore prevalentemente negoziale, tale per cui si riteneva legittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi a favore della banca operata nell’ambito dei contratti bancari. Di contro, la capitalizzazione degli interessi a favore del cliente era prevista con cadenza annuale.
Detta interpretazione, oggetto di critiche da parte della dottrina, è stata per lungo tempo avvalorata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.
Suddetto trend giurisprudenziale è andato incontro ad una battuta d’arresto nel 1999 quando la Cassazione, con la sentenza n. 2347/1999, ha completamente ribaltato il proprio indirizzo stabilendo che “gli usi contrari”, richiamati dall’art. 1283 c.c., non sono i meri usi negoziali di cui all’art. 1340 c.c,. bensì i veri e propri usi normativi, previsti dagli artt. 1 e 3 delle disposizioni preliminari al Codice Civile, consistenti nell’uniforme e costante ripetizione nel tempo di un dato comportamento avvertito da tutti come vincolante.
I giudici di legittimità, nella storica pronuncia in esame, hanno dunque ritenuto illegittima la capitalizzazione trimestrale operata dalle banche, chiarendo che, diversamenteda quanto sostenuto dagli istituti di credito, non è ravvisabile nel nostro ordinamento un uso normativo che legittimi la capitalizzazione degli interessi al di fuori dei limiti imposti dalla legge. Pertanto, ha concluso la Corte, risulta affetta da nullità l’eventuale clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi inserita dalla banca nel contratto e sottoscritta dal cliente.
L’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza n. 2347/1999 è stato positivamente accolto dalla successiva giurisprudenza di merito e di legittimità, che si è prontamente uniformata al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione.
Ciò nonostante, il dibattito sulla legittimità o illegittimità dell’anatocismo bancario risulta ad oggi ancora molto acceso.
Prova ne è stata la recente proposta avanzata dall’attuale Governo di inserire all’interno del Decreto Competitività una norma che consenta agli istituti di credito di operare la capitalizzazione degli interessi in favore delle banche con cadenza trimestrale.
A favore dell’iniziativa si è schierata la Banca d’Italia, che ha difeso un eventuale provvedimento di questo tipo, mettendo in evidenza la necessità di un meccanismo di anatocismo, che tenda a contrastare l’andamento altalenante della situazione finanziaria del nostro paese.
Di contro, numerose sono state le critiche sollevate dalla categoria dei consumatori, la quale ha ritenuto detta proposta altamente lesiva degli interessi di consumatori ed imprese, sempre più tendenti a fare ricorso al credito.
La norma in questione, giunta all’esame del Senato, è stata tuttavia eliminata dal testo di legge, con un improvviso passo indietro fatto dal Governo, inizialmente intenzionato a portare avanti tale modifica legislativa. Occorrerà comunque attendere i prossimi mesi per constatare quanto di definitivo vi sia in quest’ultima posizione del Governo.
E’ evidente, pertanto, come l’attuale trend normativo consenta ai clienti di agire nei confronti degli Istituti di Credito al fine di ottenere la ripetizione di somme illegittimamente addebitate in conto corrente.
Il correntista, tuttavia, nel momento in cui intenda agire per il recupero, dovrà tener conto del termine di decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione di indebito, così come delineata dalla nota sentenza n. 24418/10 a Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione.
La succitata pronuncia scardina, invero, l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato secondo cui la decorrenza del termine di prescrizione opera sempre e comunque dalla data di chiusura del conto corrente.
I Giudici di legittimità hanno, infatti, stabilito che, nel momento in cui il titolare del conto corrente operi al fine di attestare l’invalidità della clausola che disciplina la capitalizzazione in tre mesi degli interessi e, quindi, per la replica di quanto versato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale decorre dalla data in cui è stato estinto il conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati dal momento in cui i versamenti operati dal cliente in pendenza del rapporto abbiano solo ripristinato la provvista. Diversamente, in ipotesi di versamenti aventi funzione solutoria, il termine decorrerà dalla data di ogni singolo addebito.
Il problema cardine è, pertanto, quello di individuare il momento in cui sussiste un pagamento da parte del cliente che possano considerarsi avente natura solutoria.
Alla luce dell’orientamento delineato dalla predetta sentenza della Suprema Corte, possono così individuarsi le seguenti ipotesi:
1) addebito di interessi o competenze non dovuti su un conto corrente con “saldo attivo”: in tal caso la prescrizione decorre dalla data del singolo addebito e non dalla chiusura del conto corrente, avendo la rimessa natura solutoria;
2) addebito di interessi o competenze non dovuti su un conto corrente “scoperto” e non assistito da una apertura di credito: in tal caso la prescrizione decorre dalla data di ciascun versamento in conto corrente e non dalla chiusura del rapporto, avendo la rimessa natura solutoria;
3) addebito di interessi o competenze non dovuti su un conto corrente “in passivo” con saldo oltre i limiti dell’apertura di credito (cd. extrafido): anchein tal caso la prescrizione decorre dalla data di ciascun versamento in conto corrente e non dalla chiusura del rapporto, avendo la rimessa natura solutoria;
4) addebito di interessi o competenze non dovuti su un conto corrente “in passivo” nei limiti dell’apertura di credito: in tal caso la prescrizione decorre dalla data di chiusura del rapporto di conto corrente, avendo la rimessa in tal caso natura ripristinatoria della provvista; ed invero, in assenza di uno “scoperto extra fido” il debito del correntista non è immediatamente esigibile, in quanto il credito concesso dalla Banca con il fido rimane indisponibile sino alla scadenza.
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