Che cos’è il frazionamento del credito per il TFR

Il trattamento di fine rapporto (o TFR) è la somma di denaro dovuta dal datore di lavoro al lavoratore al momento della cessazione, per qualsiasi causa, del rapporto di lavoro. L’importo del TFR è determinato dall’accantonamento, per ogni anno di servizio o frazione di anno, di una quota della retribuzione annua e dalle relative rivalutazioni. In caso di frazione di anno, la quota è ridotta in maniera proporzionale e si calcola come mese intero la frazione di mese uguale o superiore a 15 giorni.

In sede giudiziaria è spesso sorta la questione del se fosse ammissibile, da parte del lavoratore, l’esercizio frazionato dei diversi crediti esistenti al momento della cessazione del rapporto lavorativo. In altre parole, se fosse obbligo del lavoratore, una volta venuto meno il rapporto di lavoro, di esperire un’unica domanda giudiziaria volta all’ottenimento di tutte le pretese creditorie trovanti titolo nel suddetto rapporto o, diversamente, fosse consentito l’esercizio frazionato dei diversi crediti tramite successive domande giudiziarie.

L’inammissibilità del frazionamento del credito discendente da un’unica obbligazione (nel caso del lavoratore, discendente dall’unico rapporto di lavoro) era stata enunciata dalle Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 23726/2007. Le Sezioni Unite consideravano il frazionamento del credito in plurime domande giudiziali un comportamento abusivo e contrario sia ai principi di buona fede sia a quelli del giusto processo.

La giurisprudenza successiva aveva quindi ritenuto che, in ambito di diritto del lavoro, il lavoratore sarebbe tenuto ad esercitare tutti i diritti di credito esistenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro secondo correttezza e buona fede, con conseguente improponibilitá di domande successive.

Tale approccio, tuttavia, è stato parzialmente rivisto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4090 del 16.02.2017.

Quando si può chiedere la parcellizzazione del credito?

Con ordinanza interlocutoria n. 1251 del 25 gennaio 2016, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione trasmetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, ritenuta di massima importanza, relativa alla sussistenza, o meno, dell’obbligo per il lavoratore, una volta venuto meno il rapporto di lavoro, di avanzare in un unico giudizio tutte le pretese creditorie trovanti titolo nel suddetto rapporto, con conseguente improponibilità delle domande successive.

La questione veniva sollevata a seguito della decisione della Corte di Appello di Torino che, discostandosi dal precedente orientamento giurisprudenziale in materia, aveva considerato legittima la domanda giudiziale di ricalcolo di alcune indennità spettanti a seguito della cessazione del rapporto di lavoro proposta da una lavoratrice, pur avendo la stessa in precedenza già avanzato una diversa domanda giudiziale per il riconoscimento del TFR.

I giudici torinesi, dunque, non ritenevano di dover condividere la posizione – fino ad allora accolta dalla maggioranza dei tribunali italiani – secondo cui non sarebbe consentito al lavoratore, che agisca in forza di un unico rapporto di lavoro, frazionare le proprie pretese economiche in plurime domande giudiziali, contestuali o scaglionate nel tempo (cd. principio dell’infrazionabilità della domanda giudiziale).

Secondo la Corte di Appello di Torino, infatti, tale principio opera soltanto in ipotesi di rapporto obbligatorio “unico in senso stretto” e non anche in ipotesi di rapporto di lavoro, in quanto dallo stesso discendono una pluralità di obbligazioni (retributive, risarcitorie, ecc.) concernenti istituti economici diversi. Non può quindi affermarsi che alla cessazione del rapporto di lavoro si venga a costituire in capo al lavoratore un “unico credito” costituito dalla sommatoria delle voci economiche, retributive e/o risarcitorie, ancora da esso derivanti.

Di conseguenza, secondo la ricostruzione fornita dei giudici torinesi, il lavoratore sarebbe legittimato ad agire in giudizio per il riconoscimento delle proprie pretese economiche derivanti da un rapporto di lavoro anche con domande separate e/o successive, purché non risulti chiara ed evidente la volontà dello stesso di abusare dello strumento processuale riconosciutogli dall’ordinamento.

Chiamate a decidere se il lavoratore, una volta cessato il rapporto di lavoro, sia obbligato ad avanzare in un unico processo tutte le pretese creditorie maturate nel corso del medesimo rapporto, con conseguente improponibilità di domande successive alla prima, le Sezioni Unite hanno ammesso la possibilità di azionare, in separati giudizi, domande aventi ad oggetto diritti di credito relativi al medesimo rapporto purchè diversi e distinti tra loro.

Secondo la Corte, quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo.

Applicando il principio di diritto al caso in esame – domanda da parte del lavoratore di ricalcolo del premio fedeltá con inclusione dello straordinario prestato a titolo continuativo, presentata successivamente alla domanda di rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune voci retributive percepite in via continuativa – la Corte ha ritenuto legittimo il frazionamento del credito.
In particolare, i giudici di legittimitá hanno osservato che: “Gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno diversa fonte (legale l’uno e pattizia l’altro), nonché differenti presupposti e finalità, non risultando, in particolare, che il credito azionato in relazione al premio fedeltà sia inscrivibile nel medesimo ambito oggettivo del giudicato ipotizzabile in relazione alla precedente domanda riguardante la rideterminazione del TFR, né che i due crediti siano fondati sul medesimo fatto costitutivo; onde è da ritenersi che ben poteva il lavoratore proporre le domande suddette in diversi processi, senza neppure la necessità di verificare la sussistenza di un interesse oggettivamente valutabile a tale separata proposizione.”

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