LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO. DIVIETO DI DIFFERENTE APPREZZAMENTO NEL MERITO RICHIESTO IN SEDE DI LEGITTIMITÀ

Novità giurisprudenziali

Con la recentissima ordinanza n. 7848 del 25 marzo 2025, la Corte di Cassazione affronta le censure relative alla liquidazione delle spese di giudizio e al rispetto del principio di soccombenza sollevate da una lavoratrice illegittimamente licenziata.

La pronuncia appare particolarmente interessante in quanto riprende il principio di diritto relativo al licenziamento disciplinare espresso dalla Corte d’appello: “In tema di licenziamento disciplinare, le registrazioni audio-visive effettuate dal lavoratore in ambiente di lavoro, anche se realizzate all’insaputa dei presenti, sono da considerarsi legittime e consentite quando finalizzate alla tutela di un proprio diritto. Il rifiuto del lavoratore di ricevere una contestazione disciplinare, pur configurando un’insubordinazione in quanto viola l’obbligo di collaborazione e ostacola l’organizzazione e l’efficienza aziendale, costituisce una condotta di tenuità tale da rendere sproporzionata l’irrogazione del licenziamento quale sanzione disciplinare.”

La vicenda traeva difatti origine dal licenziamento intimato ad una lavoratrice in seguito a due distinti comportamenti: i) registrazioni audio-visive non autorizzate fatte all’interno dell’ambiente di lavoro; ii) il rifiuto di ricevere la relativa contestazione disciplinare.

La Corte d’appello, uniformandosi alle valutazioni rese dal giudice di primo grado, ha ritenuto, da un lato, insussistente la prima condotta, dal momento che le registrazioni, seppur effettuate all’insaputa dei presenti, dovevano ritenersi consentite e legittime in quanto finalizzate alla tutela di un diritto della lavoratrice; dall’altro, la tenuità della seconda condotta, configurabile quale insubordinazione, inidonea a legittimare il provvedimento di natura espulsiva.

Alla luce dei superiori rilievi la Corte territorialmente rilevava l’illegittimità del provvedimento adottato, in quanto sproporzionato rispetto alle condotte ritenute disciplinarmente rilevanti e, dichiarato risolto il rapporto di lavoro, condannava la società datrice di lavoro a corrispondere in favore della lavoratrice un’indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto

La dipendente proponeva ricorso per Cassazione, fondato sui seguenti tre motivi:

  1. Mancata ammissione delle prove testimoniali da cui sarebbe emerso che alcun rifiuto a ricevere la nota disciplinare era mai stato mosso;
  2. Mancata prova del comportamento contra legem addebitato, sia con riferimento alle norme di legge o del codice disciplinare violate, sia con riferimento al contenuto della comunicazione;
  3. Violazione degli articoli 3,24, 111 Cost., nonché art. 1241 c.c. e 91,92 c.p.c. in tema di condanna al pagamento delle spese processuali.

Quanto ai primi due motivi del ricorso, la Suprema Corte dichiarava l’inammissibilità delle istanze.

In particolare, la Cassazione argomenta che il rifiuto della lavoratrice di ricevere la nota rappresentava uno degli addebiti contestati ed era già stato oggetto di vaglio nei precedenti gradi di giudizio, in occasione dei quali la condotta era stata ritenuta sussistenza, seppur di particolare tenuità. Le doglianze della lavoratrice, dunque, sollecitando un differente apprezzamento del merito della vicenda e delle risultanze processuali, già affrontato dai giudici di merito nei primi due gradi di giudizio, non era ammissibili in sede di legittimità.

Sulla scorta di tali considerazioni, La Corte ha statuito il seguente principio di diritto “una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento è una operazione non consentita in sede di legittimità, ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso finisce con il riprodurre (peraltro in maniera irrituale: cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014) sostanziali censure ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., a monte non consentite dall’art. 348-ter, commi 4 e 5, cod. proc. civ., essendosi in presenza di doppia pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto circa la sussistenza di una delle condotte disciplinarmente rilevante.”.

Anche il terzo ed ultimo motivo del ricorso veniva ritenuto dalla Cassazione infondato.

Alla luce delle considerazioni suesposte, il ricorso proposto dalla lavoratrice veniva rigettato, con conferma della regolazione delle spese secondo il criterio di soccombenza.

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