Divieto di licenziamento nell’emergenza COVID-19
Pubblicato con notevole ritardo, tra novità e chiarimenti, il #Decreto Legge “Rilancio” n. 34/2020, originariamente denominato “Aprile” sarà, comunque, ricordato per “quer pasticciaccio brutto” in tema di licenziamenti.
Le disposizioni
Con il decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 era stata introdotta la norma di cui all’art. 46 in forza della quale, a decorrere dal 17 marzo per 60 giorni era precluso ai datori di lavoro:
- l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, così come erano sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020;
- il recesso dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, della legge 15 luglio 1966, n 604, indipendentemente dal numero dei dipendenti”.
Con il Decreto Rilancio:
- si è prorogato fino a 5 mesi a decorrere dal 17 marzo il blocco dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (cioè per motivi organizzativi e/economici del datore di lavoro), anche ove esulino da ragioni dipendenti dall’attuale emergenza sanitaria, così come il divieto di avviare le procedure collettive di riduzione del personale, quali la procedura di mobilità al termine dell’integrazione salariale straordinaria (ove non sia possibile il reimpiego di tutti i lavoratori o il ricorso a misure alternative) ed il licenziamento di più di 5 persone (compresi i dirigenti) in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nella stessa provincia, nell’arco nell’arco di 120 giorni, in aziende con più di 15 dipendenti ;
- sono stati sospesi sempre per il termine di 5 mesi, fino al 17 agosto, i tentativi di conciliazione di cui all’art. 7 della legge n. 604/1966 che erano in corso al momento dell’entrata in vigore del decreto in forza dell’art. 80, del Decreto Rilancio.
Si tratta, invero, delle procedure preventive obbligatorie previste per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati da datori di lavoro con un organico superiore alle 15 unità, introdotta dalla legge Fornero e non più applicabili ai contratti regolati dal Jobs Act;
- Ai sensi del comma 1-bis aggiunto all’art. 46 del “Cura Italia” dall’art. 80 del Decreto Rilancio, si è data facoltà al datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, abbia proceduto a recesso dal rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, di revocare il recesso, purchè contestualmente sia fatta richiesta di cassa integrazione salariale, di cui agli artt da n 19 a 22” (con causale COVID-19), a decorrere dalla data in cui ha efficacia il licenziamento.
Tale disposizione deroga, quindi, alla normativa in materia, di cui all’art. 18, comma 10, della legge n.300/1970 che prevede, invece, per l’esercizio della revoca un termine di soli 15 giorni, introducendo il requisito della richiesta degli ammortizzatori sociali
In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro.
Conseguenze del ritardo della pubblicazione del Decreto Rilancio
Il ritardo nella pubblicazione del Decreto Rilancio, avvenuta solo in data 19 maggio 2020 ha, tuttavia, creato una sorta di vuoto normativo in materia di licenziamenti.
Gli effetti del blocco come disciplinato dal decreto Cura Italia, per 60 giorni dal 17 marzo 2020, sono, infatti, cessati prima dell’introduzione della proroga fino al 17 agosto, potendo così, nel medio tempore, legittimare le aziende a licenziare per giustificato motivo oggettivo i dipendenti, in assenza di una espressa disposizione che li vietasse.
Sul punto, gli interpreti si sono divisi tra i fautori della irretroattività del blocco del licenziamento in ossequio ai principi generali del diritto, e coloro che riconoscevano, comunque, l’applicazione retroattiva, non trattandosi di norma penale, in quanto il Decreto Rilancio aveva poi disposto la proroga dell’originario termine di 60 giorni a cinque mesi decorrenti dal 17 marzo .
Per tali ragioni, nel dubbio tra l’evidente ratio di tutela dei dipendenti e l’ombra di incostituzionalità di una norma con efficacia retroattiva, sembra che sia stata tenuta una certa cautela e si sia, per lo più, evitato di approfittare del momento per intimare licenziamenti per motivi economici comunque contestabili.
Probabilmente, in questo susseguirsi di decreti e conversioni in legge, ormai abituati a “norme di interpretazione autentica” che tecnicamente sembrerebbero essere più l’introduzione di una nuova norma con effetto retroattivo, si è preferito evitare di avviare una serie di contenziosi dall’esito incerto, in una situazione di emergenza pandemica ove il sovvertimento dei principi generali del diritto non ci lascia ormai più di tanto stupiti.
L’ambito di applicazione del divieto: le questioni relative ai dirigenti
Il decreto Rilancio non solo ha creato un vuoto normativo, ma ha, altresì, lasciato irrisolte alcune questioni sorte all’indomani del decreto “Cura Italia”, in particolare con riferimento all’ambito di applicazione dell’art. 46.
Infatti, secondo un’applicazione letterale della norma che fa espresso riferimento al divieto di recesso per giustificato motivo oggettivo “ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966”, il licenziamento dei dirigenti dovrebbe essere escluso dall’ambito di estensione.
Così disponendo, però sembrerebbe contraddittorio, a detta di alcuni, da una parte, vietare i licenziamenti collettivi dei dirigenti dal 17 marzo al 17 agosto 2020, e dall’altra, ammettere quello individuale.
Peraltro, anche la stessa interpretazione della norma alla luce della ratio sottesa (riduzione di più gravi conseguenze socio economiche nel periodo emergenziale, stabilendo un divieto generalizzato di interruzione del rapporto di lavoro, facendo salvi solo i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo) sembrerebbe far propendere per un estensione del divieto anche al licenziamento individuale dei dirigenti .
Tanto più che i dirigenti non sarebbero stati espressamente esclusi così come, invece, è stato fatto per i collaboratori domestici.
A sommesso avviso della scrivente, tuttavia, la peculiarità della disciplina del licenziamento individuale del dirigente, stante l’applicazione del criterio della giustificatezza previsto dalla contrattazione collettiva e non del giustificato motivo oggettivo di cui alle norme di legge, fanno propendere, insieme al dato letterale della previsione, per una esclusione dei licenziamenti dei dirigenti dall’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 46.
Tale tesi trova supporto anche nel fatto che per i dirigenti non è applicabile neppure la revoca del licenziamento già intimato per giustificato motivo oggettivo dal 23 febbraio al 17 marzo 2020, essendo per loro esclusa la possibilità di accedere ai trattamenti di cassa integrazione.
Ciò, ovviamente, con riferimento al dirigente apicale che opera come alter ego del datore di lavoro.
Con riferimento alla tipologia individuata dalla giurisprudenza del c.d. “pseudo-dirigente” potrebbe rimanere il dubbio sull’applicazione del divieto di cui all’art. 46 in quanto, secondo consolidata giurisprudenza, questo è sottoposto all’applicazione della legge n. 604/1966 (cfr. ex multis Cass. n. 7295/2018, Casi. n. 20763/2012).
E’, invece, chiaramente esclusa, come detto, l’applicazione del divieto di licenziamento sia ai collaboratori domestici (caratterizzati da un particolare regime di libera recedibilità) sia ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, essendo la previsione limitata ai soli rapporti di lavoro subordinato.
Sono, altresì, esclusi dall’ambito di applicazione delle richiamate norme emergenziali i licenziamenti disciplinari, per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il licenziamento dell’apprendista – ma al termine del rapporto di formazione – e quello per superamento del periodo del comporto.
A tal ultimo proposito, si rammenta, tuttavia, che non è computabile ai fini del comporto, il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria per COVID-19 .
Resta dubbio se debba o meno considerarsi vietato il licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione.
Questo, invero, non dipende direttamente da ragioni economiche oggettive, ma da incapacità sopravvenuta del lavoratore che giustifica il recesso ai sensi dell’art. 1464 cod. civ. sul presupposto della mancanza di interesse alla prestazione. Tuttavia, potrebbe, comunque, essere riconducibile al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3, L. n. 604 in quanto implica un’incompatibilità del lavoratore con l’organizzazione e la produttività aziendale riconducibile.
Tale interpretazione è avvalorata dal fatto che anche in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, i datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali di legge sono obbligati ad esperire il tentativo di conciliazione di cui all’art. 7, L. n. 604/1966.
Pertanto, potrebbe a ragione ritenersi applicabile il divieto di licenziamento, fino al 17 agosto, anche per i casi di idoneità sopravvenuta alla mansione.
È, comunque, espressamente vietato il licenziamento quando l’inidoneità alla mansione sia accertata nell’ambito dell’eccezionale sorveglianza sanitaria prevista dall’art. 83 del Decreto “Rilancio”, ai fini di tutela dei lavoratori che siano maggiormente esposti al rischio di contagio da coronavirus per ragioni di età, di condizioni di immunodepressione, anche correlata alla patologia Covid19 o ad esiti di patologie oncologiche o allo svolgimento di terapie salvavita, o, comunque, da comorbilità.
Con particolare riferimento ai casi di cambio appalto, nella conversione in l. 27/2020 è stata introdotta nell’art. 46 una previsione per cui sono escluse dal blocco dei licenziamenti i casi in cui il personale interessato dal recesso sia riassunto dalla impresa subentrata nell’appalto in forza di legge, di CCNL o di capsula del contratto di appalto.
Si consideri che per molte imprese i cambi d’appalto, fanno parte della gestione di eventi fisiologici delle attività lavorative e dell’organizzazione imprenditoriale in virtù di normali dinamiche di mercato. In tali momenti particolari possono, quindi, determinarsi situazioni di esubero dei lavoratori.
La questione è se i lavoratori impiegati nell’appalto dall’appaltatore uscente in caso di subentro nell’appalto di un nuovo soggetto appaltatore, debbano essere reimpiegati dall’imprenditore subentrante o se possano essere licenziati dall’imprenditore uscente che ha perso l’appalto per giustificato motivo oggettivo riconducibile proprio alla perdita dell’appalto.
In generale, in forza dell’art. 29, c. 3 d.lgs. 276/2003: “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d’impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.
Laddove, quindi, il nuovo appaltatore abbia una sua struttura organizzativa e operativa, accompagnata da elementi di discontinuità rispetto alla precedente attività di impresa, potrebbe procedere al licenziamento dei lavoratori per giustificato motivo oggettivo, non avendo diritto alla prosecuzione del rapporto lavorativo.
Tale principio è, però, mitigato dall’istituto delle c.d. “Clausole Sociali”, in virtù del quale, sussiste in capo all’appaltatore subentrante l’obbligo di assunzione del personale precedentemente impiegato dall’appaltatore uscente secondo le modalità espressamente stabilite nel CCNL di riferimento (molto nota è la clausola sociale contenuta all’art. 4 del CCNL Multiservizi), salvo che dimostri di non essere in grado di fare le assunzioni per ragioni oggettive.
Dunque, l’emendamento aggiuntivo all’art. 46 apposto in fase di conversione in Legge del D.L. consente espressamente l’avvio di procedure di licenziamento collettivo riguardante i lavoratori precedentemente impiegati nell’appalto e assunti dal nuovo appaltatore in forza di norme di legge o di contratto.
La nullità del licenziamento e il diritto alla NASPI
In un primo momento non sembrava chiaro neppure il profilo sanzionatorio in caso di violazione del divieto di cui all’art. 46 del decreto “Cura Italia” come modificato dal Decreto Rilancio: semplice inefficacia o vera e propria nullità?
Alcuni interpreti hanno, infatti, creduto che il licenziamento irrogato fosse inefficace solo nell’arco temporale indicato (quindi, in virtù della proroga, fino al 17 agosto 2020).
Tale tesi non appare condivisibile alla luce dei principi di diritto, trattandosi di violazione di norme imperative, cui consegue l’applicazione di una tutela reale, ai sensi dell’art. 18, co. 1 L. n. 300/1970 o, in caso di applicazione delle norme per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, ai sensi dell’art. 2, co. 1 D.Lgs n.23/2015.
La nullità del licenziamento intimato in violazione del divieto di cui all’art. 46 è ribadita anche nel messaggio n. 2261 dell’INPS, Direzione Centrale degli ammortizzatori sociali, con il quale è stato confermato l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASPI per i lavoratori che abbiano cessato involontariamente il rapporto di lavoro con la causale di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel periodo tra il 17 marzo e il 17 agosto 2020, nonostante il divieto posto con la disciplina emergenziale.
Dopo la pronuncia sul punto dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con nota prot. n. 5481 del 26 maggio 2020, l’Istituto Previdenziale ha chiarito che “non rileva dunque, a tal fine, il carattere nullo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – intimato da datore di lavoro nel periodo soggetto a divieto – atteso che l’accertamento sulla legittimità o meno del licenziamento spetta al giudice di merito, così come l’individuazione della corretta tutela dovuta al prestatore”.
Quindi, ha confermato che, ferma la nullità del licenziamento irrogato in violazione del divieto introdotto dal Cura Italia, come modificato dal Decreto Rilancio, ove ricorrano i requisiti previsti, dovranno essere, comunque, accolte le domande di indennità di disoccupazione NASPI presentate dai lavoratori .
L’Istituto si riserva, tuttavia, il recupero delle somme corrisposte al lavoratore a titolo di NASPI in caso di reintegra del dipendente a seguito di contenzioso giudiziale o stragiudiziale.
Il lavoratore dovrà comunicare all’INPS, con il modello NASPI_COM; l’esito del contenzioso medesimo ai fini della restituzione di quanto erogato .
Analogamente, nel caso in cui sia il datore di lavoro a revocare il recesso, chiedendo contestualmente il trattamento di cassa integrazione salariale, l’INPS potrà recuperare le somme versate a titolo di NASPI, avendo il lavoratore, invece, accesso agli ammortizzatori sociali.
Alcune riflessioni
A sommesso avviso della scrivente non sembra si possa chiudere una trattazione della normativa emergenziale relativa al blocco dei licenziamenti senza porsi qualche domanda sulla legittimità o, comunque, sull’opportunità di una previsione che incide così pesantamente sul potere di iniziativa economica dell’imprenditore.
Tale drastica misura non era mai stata adottata nelle precedenti crisi finanziarie se non a seguito della seconda guerra mondiale.
Nell’ottica di impedire più gravi conseguenze socio economiche dell’emergenza sanitaria, la norma non preclude solo i licenziamenti per motivi attinenti al particolare momento emergenziale COVID-19, ma per qualsivoglia giustificato motivo oggettivo, cioè anche per ragioni economiche, organizzative e produttive assolutamente indipendenti dallo stesso.
Ma vi è di più!
La previsione estende la violazione del diritto di iniziativa economica privata del datore di lavoro, principio costituzionalmente protetto, fino al 17 agosto, quindi, anche successivamente alla fase 1 del lockdown, in cui le ragioni di tutela potevano sembrare più rilevanti.
A tal proposito, si precisa che il blocco dei licenziamenti, comunque, opera per tutte le imprese, a prescindere dalla sospensione della loro attività, anche per quelle che sono proseguite per la loro necessità e per quelle che sono riuscite ad organizzarsi con diverse modalità (ad esempio, in smartworking).
In questo casi, l’incisione sul potere organizzativo dell’imprenditore, così duramente colpito con tale disposizione, potrebbe apparire contraria ai principi costituzionali.
D’altra parte, la previsione potrebbe essere interpretata in modo costituzionalmente orientato alla luce di una lettera ampia dell’art. 38 in forza del quale i lavoratori hanno diritto a mezzi adeguati anche per la disoccupazione involontaria, ove si intendesse non solo il riferimento alla NASpI, ma anche a tutti quegli ammortizzatori sociali “a tempo” per i quali il datore di lavoro non paga alcun contributo addizionale e che sono neutri rispetto alla durata massima complessiva prevista dal D.Lgs n. 148/2015.
Il problema, tuttavia, è lo sfasamento temporale tra il blocco dei licenziamenti, fino al 17 agosto, e le misure a sostegno.
Infatti, c’è il rischio che molte aziende potrebbero trovarsi già a fine giugno, luglio ad aver usufruito delle misura massima degli ammortizzatori sociali con causale Covid – 19, dovendo attendere settembre per accedere al trattamento per le ulteriori 5 settimane.
Superare, quindi, il periodo fino al 17 agosto, con il divieto di licenziamento, ma senza la possibilità di fruire degli ammortizzatori sociali, potrebbe acuire la crisi di alcune aziende, comportando, poi, al termine del blocco, degli effetti ancora più importanti e devastanti, spingendo le imprese a procedere subito ad agosto ai tagli senza attendere le ulteriori settimane di trattamento a settembre.