Contesto della vicenda
Con l’ordinanza n. 15326 del 9 giugno 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un ricorso presentato da una lavoratrice licenziata per mancato superamento del periodo di prova.
La ricorrente ha contestato l’eccessiva genericità delle mansioni indicate, genericità che avrebbe reso nullo il patto.
Il licenziamento era stato confermato sia in primo grado e che in secondo grado dalla Corte d’Appello di Roma, in quanto la tesi della validità del patto di prova era supportata dalle mansioni individuate con riferimento alla contrattazione collettiva (ovvero individuazione per relationem).
La questione giuridica
La questione affrontata dalla Suprema Corte attiene la validità del patto di prova alla luce dell’art. 2096 c.c., che richiede l’indicazione specifica delle mansioni oggetto della prova.
Nella vicenda in esame, la ricorrente sosteneva che le mansioni indicate nel contratto (operatrice di contact center e back office) non corrispondessero ai profili professionali della categoria C1 del contratto collettivo applicato (Ccnl Cooperative sociali), che riguardano invece mansioni socio-sanitarie/assistenziali, proprie sì delle cooperative sociali, ma comunque estranee a quelle effettivamente svolte presso il datore di lavoro, con conseguente difetto di indicazione, anche per relationem, delle mansioni nel patto di prova che, pertanto, sarebbe stato nullo.
La decisione della Cassazione
La Corte, confermando la validità del patto di prova in questione, ha rigettato il ricorso statuendo che “È legittimo il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, se il patto specifica le mansioni da svolgere tramite il richiamo alla contrattazione collettiva e alla categoria di appartenenza”.
Secondo la Cassazione, il patto di prova ha una funzione bilaterale: da un lato consente al datore di lavoro di valutare l’idoneità del lavoratore alle mansioni, dall’altro consente al dipendente di verificare la convenienza del rapporto. Tale funzione, però, può essere esercitata solo se il patto è valido, cioè se le mansioni oggetto della prova sono specificamente indicate.
La Corte ha ritenuto, pertanto, di dover verificare se le mansioni fossero state indicate correttamente, concludendo che possano essere individuate per relationem, ovvero mediante rinvio al contratto collettivo. Tuttavia, tale rinvio deve essere preciso e riferito a un profilo professionale specifico, non generico.
Questo punto è cruciale: la Cassazione non si accontenta del riferimento alla categoria contrattuale (es. C1), ma pretende l’indicazione del profilo professionale (es. operatore socio-assistenziale, addetto al contact center, ecc.). In mancanza di tale specificità, il patto di prova rischia di essere nullo, con conseguente inefficacia del licenziamento intimato per mancato superamento della prova.
La Corte ha chiarito che la specifica indicazione delle mansioni che costituiscono oggetto del patto, può essere effettuata anche con riferimento alle declaratorie del contratto collettivo, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico. Pertanto, se la categoria di un determinato livello accorpa una pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria.
La Cassazione, sulla scorta di quanto affermato nei primi due gradi di giudizio, ha confermato la legittimità del patto di prova in quanto, per ritenere correttamente e specificamente indicati nel contratto di assunzione le mansioni della lavoratrice e il suo inquadramento, sarebbe sufficiente il richiamo alla contrattazione collettiva e alla categoria di appartenenza.
Conclusioni
L’ordinanza n. 15326/2025 conferma un orientamento rigoroso ma coerente della Cassazione in materia di patto di prova, volto a garantire trasparenza e tutela nel rapporto di lavoro: è ammesso il richiamo alla contrattazione collettiva, ma solo se specifico e riferibile a un profilo professionale ben definito.