Cassazione: il CCNL non basta a determinare il salario minimo vitale

La vicenda

Con una recentissima pronuncia pubblicata lo scorso 10 ottobre la Corte di Cassazione (R.G.n. 28496/22, sent. n. 28320/23) è intervenuta in una controversia tra una società ed alcuni dipendenti della stessa, ove questi ultimi svolgevano mansioni di portierato e guardiania quasi esclusivamente nel turno notturno.

Nello specifico, la questione verteva sul mancato riconoscimento della maggiorazione per il lavoro svolto nelle ore notturne, sul corretto inquadramento del livello e del CCNL applicabile e sull’adeguatezza del salario corrisposto in favore dei dipendenti.

In particolare i lavoratori sostenevano che la paga mensile loro riconosciuta, sebbene determinata sulla base del contratto collettivo applicato nei loro confronti, non fosse adeguata e sufficiente a garantire un dignitoso tenore di vita.

La società, dal canto suo, sosteneva invece che la retribuzione fosse stata correttamente quantificata in conformità al livello di inquadramento ed al CCNL applicabile e, pertanto, non sussistevano ragioni di discostamento dai parametri applicati.

La decisione della Suprema Corte

In primo luogo, la Cassazione ha ritenuto che la maggiorazione per il lavoro notturno fosse dovuto in ogni caso e che il lavoro svolto dai dipendenti fosse da inquadrare nel corretto CCNL di riferimento con riguardo alla tipologia di mansioni prestate dai lavori.

La Corte ha altresì precisato come il lavoro notturno sia da ritenersi maggiormente “penoso”, poichè sottrae il lavoratore al normale riposo, costringendolo a rinviarlo alle ore diurne, con conseguente rinuncia ad altre attività quotidiane.

In secondo luogo, quanto alla quantificazione del salario, richiamando una precedente pronuncia del 2016, gli Ermellini hanno ribadito come l’art. 36 della Costituzione garantisca due diritti distinti in favore del lavoratore: da un lato, il diritto ad una retribuzione “proporzionata” commisurata alla qualità e quantità della prestazione svolta, dall’altro, il diritto ad un compenso “sufficiente” da intendersi come una giusta ricompensa “non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo”.

Detto criterio dovrà dunque essere considerato tenendo conto del momento storico e delle concrete condizioni di vita esistenti ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un tenore di vita libero e dignitoso.

Spetta dunque al Giudice valutare la sussistenza di tali criteri indicati dall’art. 36 Cost. accertandone l’eventuale insufficienza o non proporzionalità, mentre rimane onere del lavoratore provare la tipologia della prestazione svolta e l’entità della retribuzione percepita.

Il Giudicante, ove intenda discostarsi dai parametri definiti dal contratto collettivo di riferimento, è tuttavia chiamato a motivare le ragioni per le quali il compenso non sia da ritenersi sufficiente o proporzionato ed indicare altresì i criteri di giudizio alternativi o integrativi adoperati.

Egli potrà pertanto fare richiamo ai criteri definiti dagli indici Istat, INPS o NASPI, nonchè adeguarsi alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e dalla normativa comunitaria.

In particolare la Suprema Corte ha richiamato la recente Direttiva UE n. 2022/2041, con la quale l’Unione Europea, similmente a quanto previsto dalla nostra Carta Costituzionale e dalle pronunce della Cassazione, ha stabilito che il salario minimo debba essere adeguato, tenuto conto degli indicatori utilizzati a livello nazionale e del costo della vita, a consentire un tenore di vita dignitoso che non debba limitarsi alle materiali esigenze vitali quali cibo, alloggio e vestiario, ma anche alle necessità di partecipare ad attività sociali, culturali e ed educative.

La Corte Suprema ha da ultimo rilevato come la contrattazione collettiva paghi spesso le conseguenze di un ritardo, se non addirittura immobilismo, delle parti sociali all’adeguamento delle retribuzioni rispetto all’inflazione ed agli ulteriori fattori economici e sociali che incidono sul tenore di vita minimo.

É proprio in ragione di tale fenomeno, che spesso porta ad una mancata proporzionalità tra le previsioni contrattualistiche collettive e gli standard di vita contemporanei, a richiedere ai Giudici di merito un accertamento ulteriore che possa garantire ai lavoratori una retribuzione adeguata e dignitosa.

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